Comincia con questo articolo un nuovo ciclo di post che riguarderanno le varie fasi della produzione del Rum, dalla raccolta della canna da zucchero all’apertura della bottiglia. Di fatto il ciclo produttivo del Rum si può sintetizzare in maniera estrema nei seguenti passaggi: coltivazione della canna da zucchero e raccolta, spremitura, fermentazione, distillazione, imbottigliamento o invecchiamento. C’è però un punto fondamentale da cui partire, a mio parere, prima di entrare nel dettaglio di ciò che avviene nelle singole fasi produttive dal punto di vista tecnico. Il Rum, o meglio i Rum, che conosciamo oggi sono il frutto di secoli di sperimentazioni e soluzione di problemi, messa in pratica di un sapere artigianale che si incrocia con un approccio piuttosto scientifico trattandosi di un business, sin dalle sue origini, dai volumi davvero notevoli.
La produzione di Rum comincia quasi di pari passo con la creazione delle piantagioni di canna da zucchero. Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo il rum viene prodotto dal succo di canna da zucchero non idoneo per la produzione di zucchero, perché andato a male o troppo inacidito, o dagli scarti della spremitura o, ancora, dalla melassa avanzata dopo la cristallizzazione dello zucchero. Nei primi documenti scritti si parla di fermentazioni della melassa o del succo di scarto di almeno 14 giorni per avere un prodotto idoneo alla distillazione. Anche la documentazione scritta è però abbastanza fumosa in questi aspetti e una delle poche certezze è che già dal 1707, in uno scritto di William Y-Worth, viene citato il composto pronto per la fermentazione: si tratta di un preparato a base di melassa, zucchero andato a male, bagassa (la canna da zucchero dopo la spremitura) e il liquido che rimaneva nell’alambicco dalla distillazione precedente. Ai più attenti di voi non sarà sfuggito che si sta parlando del Dunder, che vede la sua prima apparizione a Barbados, la prima regina del Rum e dello zucchero della storia.
Dalla fondazione delle colonie (1650 circa) sono passati alcuni decenni, e ci troviamo ormai davanti alla seconda o terza generazione di planters, con uno sguardo molto più razionale e votato al raggiungimento del massimo profitto economico, si è passati da una produzione saltuaria, artigianale e davvero approssimativa ad un appoccio che prevede un controllo di gestione dei processi molto moderno. Si assiste proprio in questi anni, infatti, allo studio e alla scoperta di nuove tecniche e metodologie che vanno ad implementare non solo la quantità di Rum prodotto ma anche la sua qualità organolettica. A questo proposito è illuminante il libro di Samuel Martin “An Essay upon Plantership”. Martin era il proprietario della Greencastle Estate di Antigua. Il libro raccoglie le sue considerazioni, elaborate all’interno di quella che all’epoca poteva essere considerata una fucina di idee relative alle piantagioni e alla produzione di zucchero e Rum, una sorta di impresa innovativa e incubatrice di nuovi talenti e idee. Già nel 1754 Martin capisce che la chiave per un buon prodotto risiede nella scientificità dell’approccio e nella pulizia dei processi produttivi. Viene per esempio utilizzato un sistema di controllo della temperatura (basato sulle diluizioni con acqua fredda) dei processi di fermentazione. Lui si ispira alle distillerie di Barbados, in quel periodo in grado di produrre un distillato piuttosto elegante per gli standard dell’epoca. L’altra scuola di pensiero era invece quella giamaicana, che già all’epoca utilizzava metodi abbastanza pionieristici, con il rovescio della medaglia di ottenere distillati molto potenti dal punto di vista aromatico. I Rum giamaicani erano all’epoca poco bevibili in purezza, ma preferiti dai commercianti europei poiché per la loro gradazione alcolica e il profilo aromatico molto aggressivo potevano essere diluiti e adulterati una volta scaricati sui moli inglesi. Già nel 1794 in Giamaica si utilizza un metodo di fermentazione che utilizza fino al 50 % di dunder. Questo espediente permette ai distillatori Giamaicani di ottenere fermentazioni con una grande capacacità di sviluppare esteri durante la distillazione, che sono poi le componenti aromatiche che ritroveremo nel bicchiere. Viene anticipato di circa 30 anni quello che avverrà con il sour mash Bourbon. Possiamo dire che, mentre molti distillati, whisky compreso, erano all’asilo, il Rum si trovava già all’università ed era oggetto di un continuo fermento economico, chimico ed ingegneristico.
La distillazione in pot still, fino a quel momento l’unica utilizzata, è un procedimento lungo e tecnicamente complesso, richiede abilità e sensibilità da parte dei distillatori. L’idea che mulina nella testa dei proprietari delle distillerie è semplice: dobbiamo trovare un modo per produrre il rum in maniera continuativa, senza le lunghe e laboriose operazioni di svuotamento e ricarico dell’alambicco. Questo desiderio cavalca anche un altro problema che affligge le distillerie, soprattutto giamaicane, dalla prima distillazione effettuata: la puzza. Già nel 1707 per ridurre il funk, hogo, o semplicemente la puzza che aveva il distillato, si effettuava una seconda distillazione, con un aumento anche della componente alcolica. Per alcuni tecnici dell’epoca la soluzione era semplice: smettiamo di usare il dunder. La necessità di avere una distillazione continua, per motivi economici, e il desiderio di ridurre i miasmi dati dai vari processi produttivi si ripercuoteranno per sempre sul Rum e i suoi aromi. Anche se all’inizio del 1800 sono molti i consulenti che spingono sull’eliminazione delle componenti maggiormente acidificanti in fase di fermentazione e al passaggio completo verso la distillazione di melassa (quindi senza l’utilizzo di altre componenti di scarto vegetale e del dunder) per ora i loro consigli non sono particolarmente presi in considerazione. Con l’avvio del diciannovesimo secolo però le cose cambiano. Da un lato vi è un calo dei prezzi dello zucchero, ora molto più diffuso e accessibile, e dall’altro i gusti dei consumatori cominciano a cambiare e virano su aromi meno spinti. Si assiste in questo periodo alla separazione sempre più netta (situazione che durerà per secoli) fra i produttori di zucchero e quelli di Rum. Vi è anche un desiderio, a volte non totalmente consapevole, di distinguersi dallo “stile Giamaicano” e quindi si creano le condizioni per cui ancora oggi alcuni parlano (a mio parere ormai in maniera anacronistica) di stile spagnolo, stile inglese e stile francese. Di fatto ogni territorio, lentamente ma inesorabilmente, comincia ad esprimere una diversità e questo lo vediamo ancora oggi, è il terroir, tema quanto mai attuale caro a noi appassionati. Calando la disponibilità di sostanze di scarto per la distillazione, calo dovuto alla progressiva separazione fra raffinerie di zucchero e distillerie, e crescendo la necessità di massimizzare i profitti e razionalizzare la produzione si assiste ad un cambiamento epocale per il Rum.
Si tratta di un vero e proprio punto di non ritorno. Come abbiamo visto i produttori spingono per avere un processo di distillazione meno artigianale e più standardizzato, in cui possa avvenire una distillazione continua o comunque più efficace di quelle utilizzate fino a questo momento. Mi piacerebbe in futuro affrontare singolarmente ed in maniera approfondita la tecnica che si cela dietro ai diversi alambicchi, ma in questo articolo mi interessa darvi una panoramica di quanto le scoperte e le invenzioni che vanno dal 1800 al 1850 hanno influito sulle bottiglie che stappiamo ancora oggi. Sono numerosi i brevetti che vedono la luce in questo periodo. Si comincia nel 1801 con Edouard Adam che progetta e costruisce un alambicco del tutto nuovo. Si tratta di un pot still in cui fra il primo pot e il condensatore sono posti altri due o tre mini pot still. È il prototipo del pot and retort still (come il Forsyths) che vediamo utilizzare da distillerie leggendarie come Hampden o Worthy Park. Tutti, o quasi, oggi utilizzano questo sistema per produrre i propri Rum pot still.
Una menzione particolare deve essere dedicata al Corty’s patent simplified distilling apparatus. La peculiarità di questo alambicco, e la sua novità assoluta, è quella di avere sopra al pot (la parte a forma di pentola) una mini colonna con due o tre piatti raffreddati ad acqua. Questo aspetto è importante poiché il vapore alcolico si raffredda e ritorna in forma liquida per poi essere ridistillato man mano che la temperatura all’interno dell’alambicco sale: è il reflusso, un fenomeno per cui aumenta la concentrazione alcolica a sfavore della complessità aromatica.
Una menzione particolare deve essere dedicata al Corty’s patent simplified distilling apparatus. La peculiarità di questo alambicco, e la sua novità assoluta, è quella di avere sopra al pot (la parte a forma di pentola) una mini colonna con due o tre piatti raffreddati ad acqua. Questo aspetto è importante poiché il vapore alcolico si raffredda e ritorna in forma liquida per poi essere ridistillato man mano che la temperatura all’interno dell’alambicco sale: è il reflusso, un fenomeno per cui aumenta la concentrazione alcolica a sfavore della complessità aromatica.
Questo espediente si evolverà nell’alambicco Cellier Blumenthal e vedrà il suo perfezionamento nel brevetto del mercante olandese Armand Savalle. Gli alambicchi Savalle sono utilizzati ancora oggi in tantissime distillerie. Aumenta la gradazione alcolica, diminuisce il tempo dedicato alla distillazione, e si sta risolvendo quello che all’epoca era considerato un problema: l’estrema aromaticità, talvolta spinta, del Rum.
Con l’introduzione della colonna Savalle e della presentazione del brevetto per l’alambicco Coffey si va a completare il quadro che di fatto troviamo invariato anche oggi, con le opportune evoluzioni gli alambicchi sono gli stessi che vediamo nelle migliori distillerie del mondo: double retort pot still, Coffey, Savalle e Vendome stills. C’è però un cambiamento dei gusti e delle necessità, con operazioni di mercato che attribuiscono ai rum più leggeri (distillati in alambicchi a colonna singola Savalle e Coffey) caratteristiche organolettiche migliori. Comincia una lotta per l’identità Giamaicana di cui potete leggere a questo altro articolo di Rummiamo.
Da qui in poi la corsa che porterà verso la distillazione continua multi colonna non si fermerà più. Il ventesimo secolo è il periodo d’oro dei light rum.
Spero che questa lunga carrellata vi sia piaciuta, per me è sempre molto interessante andare a spulciare la storia che sta alla base di quello che beviamo. Ci vediamo presto su queste pagine perché comincerà un ciclo di articoli sulle singole fasi di produzione di questo incredibile distillato.
PS. Posso inviarvi i libri originali di Martin e Wright perchè qualche santo li ha digitalizzati in maniera legale. Sono difficili da leggere ma sono davvero belli e romantici nel loro inglese antico e nella bellezza del racconto.
Bibliografia
- Martin Samuel, An essay upon the plantership, Antigua, 1755
- F. B. Wright, Distillation of alcohol from farm products, Spon & Chamberlain, New York, 1906
- Piercy Joseph, A rum tale, spirit of the new world. The History Press, 2019